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La cultura non ha genere

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Prima del genere, c’è la persona.
Per il professor Paolo Valerio, presidente dell’ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), fare informazione sulle identità di genere è un mezzo per promuovere inclusivamente una cultura che veda nelle differenze una risorsa da valorizzare e non un ostacolo. È necessario sostituire la cultura basata su un’ideologia patriarcale, sessista, genderista, ed eteronormativa, che fa riferimento agli stereotipi di genere.

Paolo Valerio, classe 1948, è anche Professore Onorario di Psicologia Clinica presso l’Università Federico II di Napoli, Presidente Onorario del Centro di Ateneo Sinapsi della medesima università e Presidente della Fondazione Genere Identità e Cultura. Di recente è stato anche nominato Presidente del Comitato Disabilità Unite.

Lo psicoterapeuta racconta, attraverso la sua esperienza e le realtà di cui fa parte, quanto sia importante aprire le menti per creare una società più inclusiva, in cui tutti e tutte abbiano le stesse opportunità e gli stessi diritti.
Infatti, lo statuto delineato dall’ONIG, secondo un approccio affermativo, si basa su due principi fondamentali: il non binarismo di genere e la depatologizzazione. Una persona transgender non è malata, è una persona che ha il diritto di veder riconosciuto il genere percepito, con il quale si identifica, indipendentemente dal sesso assegnato alla nascita. Ha il diritto che le venga offerto un intervento svolto in un’ottica affermativa, cioè, culturalmente informato e sensibile ai bisogni e che prenda in considerazione: il peso del minority stress, l’autonomia e la resilienza. È importante, inoltre, contribuire a ridurre le barriere sociali e culturali che possono interferire con il benessere psicofisico, sessuale e sociale delle persone transgender.

Genere: tra orgoglio e pregiudizio

«Nel ’95 arrivò nel mio studio una ragazza dall’aspetto molto femminile inviata a consulto da un collega uro-andrologo – spiega Valerio – con la richiesta di essere aiutata a fare quello che all’epoca si chiamava ‘cambio di sesso’». Oggi la terminologia è cambiata. Le persone transgender, cioè coloro che non si identificano con il genere assegnato alla nascita sulla base dell’apparenza dei genitali esterni, chiedono di intraprendere un percorso di transizione che consenta di vivere pienamente nel genere percepito in cui si identificano, che può essere maschile, femminile o non binario.

Paolo Valerio, presidente dell’ONIG

«All’epoca ero già professore universitario e psicoterapeuta – continua Valerio – conoscevo le questioni legate all’orientamento sessuale, ma dal punto di vista clinico non avevo mai incontrato una persona che volesse intraprendere questo percorso». Il professore consigliò alla ragazza di rivolgersi a una sua collega che aveva più esperienza, e in quel momento comprese che doveva cominciare a studiare e ad approfondire questo tema. «Negli anni in cui ho cominciato – precisa Valerio – era comprensibile, anche se non giustificabile, che uno psicologo clinico non avesse competenze in quell’area specifica perché erano tematiche che non venivano affrontate all’università. Oggi la formazione dei futuri medici, psicologi, infermieri, cioè dei professionisti impegnati nei servizi psico-socio-sanitari, non può non affrontare queste sempre più diffuse aree tematiche».
Bisogna considerare che storicamente, e in diversi contesti, è segnalata la presenza di persone che non si riconoscono nel sesso assegnato sulla base dell’apparenza dei genitali esterni. Da sempre a Napoli è stata descritta la presenza dei “femminielli “, delle Hijras in India, delle Muxes in Messico, dei Kathoey o Ladyboys in Tailandia e delle Vergini Giurate o Burrneshe nei paesi balcanici. Queste figure sono donne che si identificano come uomini e sono riconosciuti come tali in quella società. Nonostante ciò, ancora oggi, viene stigmatizzata la femminilizzazione del maschio. Basti pensare a espressioni come “non piangere! Non comportarti come una femminuccia! ” che, se rivolta a un maschio, soprattutto davanti agli amici, ha una connotazione dispregiativa.

D’altra parte, il più alto tasso di abbandono scolastico riguardava le ragazze transgender, perché, almeno in passato, subivano violente forme di bullismo omo-transfobico. Negli ultimi tempi si comincia ad assistere a un cambiamento soprattutto nell’ambiente scolastico e tra i giovani. Ad esempio in molte scuole italiane gli studenti appoggiano le richieste dei compagni e delle compagne di classe transgender di essere appellati/e con un nome in sintonia con il genere con cui si identificano.


Storie di genere: “How to be a girl”

Il video “How to be a girl” descrive la storia di un bambino di tre anni, assegnato maschio alla nascita che presenta un’Organizzazione Atipica dell’Identità di Genere e che chiede alla madre di essere riconosciuta come una bambina. «Nel video la bambina richiede in modo chiaro e preciso – spiega il professore – che le venga riconosciuto il diritto di poter auto determinare il genere a cui sente di appartenere, diritto che deve essere riconosciuto alle persone transgender e gender nonconforming».

Questa storia solleva dubbi e incertezze su cui la scienza si interroga e a cui non è semplice dare una risposta. Offre, però, anche l’opportunità di riflettere su due aspetti: come si insegna oggi a un bambino o a una bambina a comportarsi da maschio o da femmina? Sono ancora validi gli stereotipi su cui si è basata l’educazione delle passate generazioni? «Gli elementi nefasti della nostra cultura sono lo stereotipo e il pregiudizio – continua Valerio – e il figlio malvagio di questa coppia è lo stigma, da cui possono derivare comportamenti omo-transfobici».
È utile ricordare che l’identità sessuale non è definita solo dal corpo e dalla biologia, ma contribuiscono a definirla anche i ruoli di genere. Essi riguardano i comportamenti assunti per confermare a noi stessi e agli altri il genere con cui ci si identifica e sono in modo stereotipato, espressione dei contesti, della cultura e dei tempi in cui viviamo. Infine, gli altri due fattori che definiscono l’identità sessuale sono l’identità di genere (maschile, femminile o non binario) con cui ci si identifica e l’orientamento sessuale. Questi due fattori riguardano la soggettività e l’attività psichica.

«Noi sappiamo abbastanza del cervello ma non abbastanza della mente» continua Valerio. «Non abbiamo ancora valide e incontrovertibili spiegazioni scientifiche su come possa, un aggregato di neuroni sentire, patire, dare origine alle emozioni. Nessuno ha ancora dato una risposta scientificamente valida al dilemma cartesiano del rapporto tra corpo e mente. Dobbiamo, quindi, riconoscere di non sapere abbastanza e di non poter dare risposte certe a tutte le questioni che hanno a che fare con la soggettività, con l’identità di genere e con l’orientamento sessuale. Possiamo ipotizzare che sono il frutto dell’interazione tra cultura, natura e caso. Quando parliamo di identità di genere e di orientamento sessuale parliamo, quindi, di soggettività e di modi di essere» continua il professore.


«La modernità ci costringe a confrontarci con cambiamenti a cui non siamo sempre pronti a adattarci e comprendere e a cui, spesso, opponiamo ottuse resistenze. – continua Valerio – Oggi incontriamo persone non binarie e gender queer, persone che sentono la propria identità di genere fluida e chiedono che tale identità venga riconosciuta».
«Sulla base della mia esperienza ho appreso che siamo tutti costretti a vivere nell’ incertezza. Dobbiamo offrire a tutte e tutti, in un’ottica inclusiva ed equa, l’opportunità di vivere un’esistenza dignitosa, senza basare i nostri comportamenti su pregiudizi che non hanno alcuna validità e fondamento etico, morale o scientifico» conclude il professore.

1 Comment

1 Comment

  1. Gloria

    15 Luglio 2022 at 15:18

    Ci vuole sempre intelligenza in ogni situazione. Non si può giudicare da un vestito. Ognuno è quello
    Che si stende di essere. Anche mio
    Figlio ha vissuto tanto male la sua
    Omosessualità poi finalmente ha trovato il coraggio di essere se stesso e ora è se stesso con. Tutto

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